Lune sospese di Gianluca Ricci – Lettura di e.c.

di Enrico Cerquiglini

Lune sospese di Gianluca Ricci, Midgard editrice, si presenta con un’elegante quanto sobria copertina, ed è corredato da un’acuta nota introduttiva di Carlo Guerrini e da uno scritto dello stesso autore, A mo’ di introduzione, che precede i testi poetici. Guerrini ci introduce subito nel vivo della raccolta sviscerandone gli aspetti biografici e critici che sorreggono il volume. Il riferimento all’indifferenza dalla Natura del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese sembra tracciare i confini esistenziali che Ricci, al pari di Leopardi, ben conosce e che a tratti cerca di forzare con una volontà che diventa esercizio di esistenza. Del recanatese c’è anche quel superamento dell’antropocentrismo che è un riconoscimento dei limiti umani e del diritto di esseri che umani non sono ma che con e come l’uomo sono in balia della precarietà della vita.

Lune sospese non presenta una dedica esplicita, ma il testo A mo’ di introduzione, richiama affettuosamente la figura di Vittoria Maltese Bartolucci, poetessa e originalissima disegnatrice che, con la sua assoluta discrezione, si è mossa in questi ultimi decenni nel panorama umbro impreziosendo le amicizie poetiche con disegni e parole di assoluta lucentezza. E quindi Vittoria è l’implicita dedicataria di questa opera. Omaggio sentito alla persona, alla poesia e ai disegni di un’artista straordinaria.

L’impostazione della raccolta è prosasticamente diaristica: il primo testo, Acquazzone a settembre, risale al 23 settembre 2019 e l’ultimo, Il tempo, al 7 aprile 2024. 45 testi sono del 2019, 58 del 2020, 60 del 2021, 10 del 2022, 1 del 2023 e 3 del 2024. Al diradarsi dei testi corrisponde la percezione della fine, del momento che attende ogni essere vivente fin dal primo vagito. La fine del percorso, il compimento.

Le linee di lettura di questa raccolta sono diverse. Il percorso esistenziale che Ricci tratteggia, specie nella prima sezione della raccolta, intitolata Gibbosa crescente, è quello della circolarità su cui però aleggia la domanda angosciante dell’Islandese sul senso del dolore, della distruzione e dell’indifferenza. Gli elementi della natura sono metafore, simboli che in qualche modo consolano il nostro senso di vuoto: «Ogni anno tutto lietamente nuovo, ogni anno consapevoli di un ciclo / sazio della sua perfezione» (1.28), «Ogni stagione conferma / la fine del mondo / secondo le proprie abitudini» (2.50) e quando si esce dal ritmo prettamente stagionale arrivano considerazioni come: «in questa mia convulsa adolescenza / che ho sempre chiamato vita» (Walzer n. 2) dal vago sapore penniano e «Non saremo mai più adolescenti / e per fortuna non due volte vecchi». Quando il discorso poetico sembra indagare la natura intrinseca dell’uomo, e della vita tout court, ecco gli uomini che sono «cancelli, / filo spinato, occasione di tortura», definizione solo in parte mitigata dal riferimento alla metamorfosi degli uomini in farfalle della Maltese Bartolucci. E sull’anelito del volo ritorna il testo 1.68, in cui fa da sponda al desiderio umano la sua natura che si manifesta quasi in accenti amletici per sciogliersi in un’accettazione fatalistica che lo allontana dal principe di Danimarca. E poi con toni ironici e inclementi, siamo «pacciamatura per le future generazioni» o «api / che lavorano tutta una vita / per la sopravvivenza della regina / e un altro alveare ancora» (3.50) e, per finire, il tempo come metronomo spietato «Mi dicono che gli altri / sono morti, feriti o dispersi. / La vita non lascia scampo» (Come in guerra).

Gli aspetti del potere e le proiezioni nel futuro, offrono al lettore spunti decisamente interessanti. Da una parte abbiamo nel testo Dovere di profughi la ricerca di una terra, di un luogo edenico che possa rappresentare un nuovo inizio «Proviamo, dunque, a cercare una patria / ed un’altra ancora, magari riconoscendola / perché il sole vi splende fino a mezzanotte / e l’acqua vi è tanto dolce e profumata / quanto il succo delle viti in autunno» e dall’altra abbiamo Polemos, il demone della guerra, che ci seduce con le sue lusinghe, con le sue verità binarie: «Ogni guerra è utile / buona e giusta» e continua nella sua logica demoniaca, in cui il vero e il falso si fondono fino a diventare una suggestiva orazione: «Vorreste forse vedere / un contadino senza aratro, / un ponte senza acqua / un villaggio senza forno / marinai senza nave, una prigione senza porte? / Ed allora perché tollerate / intellettuali senza letture / sapienti senza logica / cantanti senza voce, / scrittori senza storia, / profeti senza messaggio?» per giungere poi a conclusioni che rimandano a un vitalismo già tristemente noto: «Solo la guerra ci sottrae / alla perpetua sonnolenza». Il potere che si staglia all’orizzonte non ha nulla di rassicurante. Ci dice Ricci: «fa sgomento l’ossessione / dei grandi per la ricchezza / e soprattutto per il potere» (2.21), ossessioni che non promettono nulla di buono, che oscurano ogni possibile solidarietà umana. Neanche l’aspetto religioso offre un conforto, o quelle certezze di cui l’uomo ha bisogno per accettare il suo esserci: «Ha più colori un fiore dei campi / che le mille ali di un cherubino, / ha più carità una mano mercenaria / che un volto che si affila / a guardare un’unica direzione».

Una notazione merita senz’altro la riflessione sulla scrittura in genere e sulla poesia in particolare. Le parole vengono definite, con un’immagine efficace, «lame dal filo perduto», strumenti ormai incapaci di incidere in profondità nella carne e nelle coscienze. Sul valore dei versi e del lavoro culturale riflette nel Trattatello, 2: «E tu diglielo che scrivere libri, / compilare scoli e glosse, / predicare all’ombra dei chiostri / poco vale o nulla»; sono versi tristi che mostrano quanto svilito sia ormai il pensiero e l’approfondimento culturale, in questi anni, travolti come siamo da un eterno e avvilente presente. Una speranza, seppur tenue, viene dai versi di Il poeta, forse laddove viene sintetizzato il ruolo del poeta: «Sì, questo tentano di fare i poeti, / di infettarsi con il mondo, / di dare un senso ad una verginità, / che hanno né perso né mai avuto, / perché nati per caso o per compiere / il senso della vita altrui». La poesia che travalica i secoli e dà senso a vite che mai il poeta avrebbe immaginato.

Non poteva mancare in questa natura simbolica la rosa a cui Ricci dedica un testo 2.14 riecheggiante suggestioni polizianesche attraverso definizioni inedite del fiore più cantato. Ma poi arriva la rosa d’autunno «quando cadono le piogge / le prime piogge d’autunno, / e crescono crisantemi» e la stagione alterna «foliage» a «primi freddi» e un fiore lascia il posto all’altro e si chiude con una nota di amara consolazione «siamo stati qualcosa di più / di quanto avevamo sperato».

Molte altre potrebbero essere le linee di lettura (mi viene in mente la complessità dei rapporti amorosi, la religiosità diffusa, i dotti riferimenti storico-filosofici…) ma l’individuarle e assaporarle è bene che lo faccia il lettore. Poco senso avrebbe una raccolta completamente sviscerata. La poesia è anche un velo che può celare verità da dimensionare sul proprio Io.

Gianluca Ricci con Lune sospese conferma di essere un punto di riferimento in Umbria (e non solo) per chiunque voglia capire cosa l’Umbria ha poeticamente prodotto nell’ultimo mezzo secolo e per chiunque voglia confrontarsi con una poesia alta e libera di un poeta colto ed estremamente misurato.

Mi piace concludere questa breve nota con il riferimento a un testo (2.24) che rappresenta un congedo che rimanda a Cavalcanti e a Petrarca, che rimanda alla poesia come linguaggio capace di illuminare e turbare: «Poesia che te ne vai / con passo incerto / e pensieri oscuri / tra i viali ed i vicoli / di una città […] forse troverai, senz’altro troverai, / un corpo di luce, / un pieno giorno / di armonie e nuove tentazioni». «Armonie e nuove tentazioni» che alludono versi e situazioni baudelairiane.

Gianluca Ricci, Lune sospese, Midgard Editrice, Perugia, 2004, €. 12.00

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